A volte una breve narrazione può restituire un vissuto denso di eventi ed emozioni. Queste storie, non vere ma verosimili, sono elaborate a partire dai racconti di famiglie e operatori, e provano a metterne su pagina l’intima ricchezza.
”Certi giorni in cui mi sentivo più triste, casa nostra mi sembrava una casa a metà. Il letto matrimoniale per metà restava vuoto, su una delle sedie della cucina non si sedeva più nessuno, lo specchio del bagno rifletteva solo me. Dove saremmo dovuti essere in tre, eravamo rimaste in due. Mio marito se n’è andato per la stessa ragione per cui sarebbe stato giusto che rimanesse: la bambina. Abbiamo una figlia che a seconda di chi la guarda può essere chiamata speciale, diversa, disabile, handicappata, sfortunata. Per me, ovviamente, è mia figlia, e basta. Lui invece non ha mai deciso con che occhi guardarla, e così a un certo punto gli è riuscito più naturale non guardarla più. Da quel momento io e mia figlia abbiamo vissuto nella casa a metà. Per fortuna, prima di iniziare a essere anche noi “persone a metà”, abbiamo incontrato una famiglia che aveva abbastanza energia per tutti. Una cosa per niente scontata, visto che anche in casa loro c’è un figlio che cambia nome a seconda di chi lo guarda. I genitori però sono d’accordo su come guardarlo, che è poi lo stesso modo in cui guardano mia figlia: con allegria e fiducia, come si fa con tutti i bambini. Ci aiutano, anzi, ci aiutiamo, perché a volte capita che sia io a trovare le parole che rendono la vita più leggera. Altre volte lo fanno loro, e si vede che sono abituati perché le trovano in fretta, e mi sembrano quasi sempre quelle giuste.
”Quando ero piccola nel mio quartiere c'erano più bambini che bambine e le femmine giocavano con i maschi ai giochi che piacevano a loro. Siccome ai maschi piace litigare e giocare alla guerra, spesso ci ritrovavamo a fare parte di qualche banda e ad avere un'altra banda per nemica. Ci sfidavamo alla maniera dei bambini per essere i padroni del cortile e, quando una banda vinceva, quelli che avevano perso dovevano firmare un patto in cui erano scritti i doveri, le regole e le penitenze decise da quelli che avevano vinto. Questo ricordo mi è tornato in mente ora che ho più di trent'anni e vivo molto lontana dal mio quartiere perché mi sono trovata di nuovo a firmare un patto. Da allora è la prima volta, mi sembra. La mia banda adesso siamo io e mia figlia. L'altra banda è più numerosa, sono in cinque: un papà, una mamma, tre figli. Però non sono nemici, anzi, credo che diventeranno il contrario, e nel patto non ci sono penitenze per chi ha perso. Ci sono delle regole, ma le abbiamo decise insieme, e ci sono dei doveri, e anche questi li abbiamo decisi insieme. Li abbiamo stabiliti a partire dalla mia banda, dalle cose che a me e a mia figlia vengono bene e da quelle in cui facciamo più fatica. Abbiamo scritto che con l'aiuto dell'altra famiglia proveremo a fare le prime ancora meglio e a rendere le seconde un po' meno faticose. Quando ero bambina il patto tra bande significava che il gioco era finito, oggi invece sono emozionata come quando le cose iniziano. Penso che sarà bello 'giocare' con questa banda tanto più grande della mia.
”Da quando ho iniziato a frequentare L. e il suo bambino è passato un po' di tempo, ma lei ha ancora qualche difficoltà ad aprirmi la porta di casa. Credo che sia una questione di imbarazzo e che dipenda dal fatto che la casa è piuttosto malmessa, ma va bene così, mi ci farà entrare quando vorrà. Per ora ci vediamo da noi oppure ai giardini, dove i nostri figli possono giocare con gli altri bambini. L'altro giorno siamo andate al parco per fare merenda insieme. Lei ha preparato un dolce tipico del suo paese e io ho portato un thermos di tè. Suo figlio, che è più piccolo del mio, era stupito che il tè fosse bollente anche se eravamo fuori da più di un'ora e faceva fresco, e voleva sapere perché. Io non sono una grande esperta di thermos ma siccome è un peccato non rispondere alle curiosità dei bambini, ho provato a spiegargli che il thermos era fatto con materiali speciali, che c'era un doppio fondo e che c'era uno spazio vuoto tra l'involucro esterno e quello che contiene il liquido all'interno, e che per questo il tè era protetto e rimaneva caldo. Per un po' mi è stato a sentire ma poi si deve essere stufato di questa goffa spiegazione e, appena mio figlio lo ha chiamato, ha approfittato per correre via. Abbiamo riso della sua fuga e L. ha commentato che è difficile rispondere alle domande dei bambini ma che secondo lei avevo dato una spiegazione molto bella e che anche io ero un po' un thermos, perché mettevo dello spazio tra lei e i suoi problemi. Se questo spazio non c'è finisce che il contatto con le difficoltà ti raffredda il cuore. Il fatto che io ci fossi, ha detto, la stava aiutando a conservare il calore. Li per lì non ho saputo cosa rispondere, ma spero che avremo occasione di parlarne di nuovo, magari sempre davanti a una tazza di tè. Forse, tra un po' di tempo, perfino sedute intorno al tavolo di casa sua.
”Di recente un percorso di affiancamento è giunto alla conclusione e, insieme alle due famiglie coinvolte, abbiamo riletto il patto scritto e firmato tanto tempo prima. All’epoca eravamo stati attenti a soffermarci non solo sulle difficoltà da affrontare, ma soprattutto sulle risorse che la famiglia affiancata avrebbe potuto mettere in campo. Le avevamo elencate una per una sul foglio, ma leggendo quella serie di parole non avrei saputo dire che cosa provassi. Scriverle era giusto e doveroso, ma ci credevo davvero? Non ci stavamo limitando a stilare una lista di buone intenzioni che poi, all’atto pratico, si sarebbero rivelate vaghe e indefinite? Ho speso molte riflessioni dietro a questi interrogativi, ma oggi mi viene più facile rispondere con un aneddoto. La prima volta che sono andato a vedere un film in 3D è accaduta una cosa buffa e un po’ sciocca. Per buona parte della prima scena ho dimenticato di mettermi gli occhiali e sono rimasto a guardare un mare di figure che si muovevano sbiadite sullo schermo. Poi mi sono accorto dell’errore, ho infilato le lenti e la sensazione immediata che tutto prendesse forma è stata fortissima. Rileggere il patto a fine percorso mi ha fatto la stessa impressione. Non era stata la consistenza a mancare in quella lista, ma gli occhiali 3D a mancare sul mio naso! Le stesse parole, viste adesso, mi sono venute incontro nitide e panciute, rotonde perché piene degli episodi, degli stupori, delle impensabili conquiste collezionate in questi mesi. Le risorse c’erano davvero, dovevo solo abituarmi a vedere più “realtà” di quanta sono solito considerare. Una questione di occhiali.
”Il male fa notizia. Accendi la radio e senti storie terribili. Accendi la televisione e vedi immagini terribili. Vai su internet e trovi le immagini ancora più terribili che neppure la televisione aveva il coraggio di farti vedere. Io, con tutte le sfortune che ho avuto, non lo so se su internet mi ci metterebbero, ma in televisione di sicuro. Ospite speciale al telegiornale un giorno sì e un giorno no. Meglio però se mi chiamassero in una di quelle trasmissioni dove c’è l’esperto che ti rimette in sesto la casa, il lavoro, la famiglia, il guardaroba… Cominci pure da dove vuole, gli direi, che poi quando ha finito passiamo al problema dopo. Ma faccia veloce, che sennò la trasmissione finisce e mi ritrovo con la situazione tale e quale a prima. I miei bambini, invece, vorrei che li chiamassero in un cartone animato, dove non si annoierebbero mai e avrebbero sempre compagnia. I parenti e gli amici, tutti a Chi l’ha visto. La loro foto sullo schermo e la scritta “scomparso”, che praticamente da quando ho chiesto una mano sono spariti tutti, e chissà adesso dove sono. Comunque se ci fosse da sapere qualcosa su di loro lo saprei perché, appunto, il male fa notizia. Il bene invece è più discreto, non fa chiasso, devi andare tu a cercarlo sotto la superficie delle cose. Io ci ho frugato e per fortuna l’ho trovato. Il “mio” bene ha le facce di M. e di L. Due belle facce. Non di quella bellezza che vedo in tv. Facce vere, dove distingui le rughe della gioia e quelle della fatica. Facce che mi sono piaciute appena l’assistente sociale ci ha presentati. Anche io sono piaciuto a loro, e questo lo trovo già più strano perché, secondo me, non ho proprio un aspetto che ti conquista al primo colpo. Avranno visto qualcosa di cui non mi accorgo. Secondo l’assistente sociale, forse è per il modo in cui stavo stretto ai miei figli, chissà. Comunque sia, M. e L. ci hanno sorriso subito a tutti e tre. Non so proprio in che trasmissione le prenderebbero due facce come le loro. Fosse per me, in una molto allegra, di quelle che ti viene voglia di guardarne un pezzo tutti i giorni. E magari, una volta che mi chiamano come ospite speciale al telegiornale, potrei perfino portare M. e L. in studio con me, per far vedere che un po’ di notizia la può fare pure il bene.