Tanti gli anni di sperimentazione, tanti i territori incontrati e tante le persone coinvolte che hanno voluto raccontare l’esperienza dal proprio punto di vista, offrendo a chi legge frammenti unici e irripetibili di ciò che hanno vissuto.
”La proposta della sperimentazione è stata una sorpresa in tutti i sensi. Ho ricevuto un grande aiuto dalla famiglia affiancante, un aiuto in cui ti senti libero nel chiedere e anche nel commettere un sbaglio. Loro mi hanno capito, mi hanno messo a mio agio e mi hanno permesso di aprirmi. È stata una cosa normale, come quando bevi un caffè insieme. Non sento di aver vissuto un progetto: sono delle persone che ho conosciuto, che abitano qui vicino, con cui c’è stata una relazione.
”Non si sono mai messi nella posizione di chi insegna. Le discussioni erano del tipo: “guarda, anche con mio figlio è così, i compiti fa fatica a farli, la scuola è un problema…”. Condividevano con me le esperienze che stavano avendo loro con i loro figli, senza suggerire che ci fosse un modo giusto o un modo sbagliato.
”Mi hanno molto aiutata le parole che mi hanno detto: “dai che ce la fai, sei una mamma brava”. Perché loro hanno visto tanto. Nei momenti difficili quella famiglia mi ha fatto andare avanti.
”Vedo in loro una disponibilità alla fiducia che si traduce nel mostrarsi come si è, senza doversi mascherare troppo. Mi piace molto il fatto che quando noi andiamo da loro o loro vengono da noi, si apre la porta, si entra e quel che c'è, c'è. Mi sembra che questo significhi: “siamo in confidenza, mostriamoci come siamo”.
”Mentre aspettavo dall’assistente sociale è arrivata lei, tutta così dolce, solare, con questo viso…e ho detto: “Oh, ecco, questa è la mia famiglia!”.
”La mamma veniva da me con la bambina per i compiti, e finché i figli studiavano noi avevamo la possibilità di fare quattro chiacchiere, bere un tè e magari scambiarci qualche confidenza. Ecco, anche il modo in cui mi rapportavo a mio figlio durante i compiti dava modo di riflettere su come noi mamme, a volte, non siamo abbastanza pazienti. E allora magari ci scambiavamo i ruoli: mio figlio faceva i compiti con la signora, e io li facevo con la bambina. ``Mamma mia`` ha detto un giorno, ``anche vostra figlia ha un bel caratterino, è molto cocciuta``. ``Vedi`` le dico, ``anche noi a volte abbiamo degli scontri, eppure vogliamo bene a questi figli... Non sono come li vorremmo, però!``. E lì, in quei momenti, senti che nascono la fiducia e la solidarietà.
”Siamo partiti che era la mamma affiancata ad aver bisogno di aiuto, ma siamo arrivati ad averne bisogno noi. Non tanto di aiuto pratico, ma emotivo. Lei c’è stata vicina, sia con la religione che con la sua cultura. L’ho ascoltata volentieri come amica. Ci è stata accanto in un momento molto brutto. In più si è offerta di averci a cena per aiutarci su cose minime, quasi come una banca del tempo.
”Il progetto ci ha aiutati a non rimanere incastrati nelle nostre dinamiche familiari. Aiutare altre persone a risolvere i loro problemi smuove i tuoi e ti ridà fiducia nelle tue potenzialità. Nel caso specifico, noi abbiamo quattro figli e il secondo è disabile. Quando mi hanno parlato di questa mamma che aveva avuto un bambino con una difficoltà, mi sono messa nei suoi panni. Mi sono sentita chiamata in causa. E poi faceva bene anche a me: ripercorrere il mio cammino vivendolo con una consapevolezza e una capacità diverse era un’occasione per rielaborare. E così, nel cercare soluzioni per un’altra famiglia, ci siamo ritrovati a vedere dall’esterno anche le nostre problematiche e a trovare soluzioni che prima non avevamo valutato. Ad esempio, facendoci aiutare di più con nostro figlio, che era in una fase delicata e aveva bisogno di staccarsi un po’ da noi genitori.
”Ci deve essere innanzitutto sincerità con se stessi, per capire quali sono le motivazioni che spingono a fare questa scelta ed entrare veramente nella comprensione del bisogno dell’altro. È facile giudicare, è facile dire che quella persona ha mille problemi e io devo aiutarla. Però poi, per aiutare davvero, occorre capire il perché dei problemi, capire gli stati d’animo. Cosa faremmo noi al loro posto? Serve non sentirsi superiori, ma accettare.
”Quando proponiamo di accogliere in casa assistenti domiciliari o educatori, le famiglie si sentono come controllate. Ricevere in casa, invece, altri due genitori che non sono professionisti, può permettere di far nascere un buon rapporto. La percezione del controllo è meno forte perché la relazione nasce quasi da una loro scelta: le famiglie si sono trovate ed abbinate tra loro.
”Per me è stato un lavoro nuovo. Il lavoro in rete, il confronto con gli altri, la programmazione e la riflessione condivisa… tutti elementi che non corrispondono agli spazi normali che abbiamo. Anche nella relazione diretta con le persone c’è stato qualcosa di diverso: la consapevolezza che il cambiamento non lo decido io, ma che devo sentire e ascoltare qual è per l’altro il problema, qual è la sua difficoltà. Solo lì lui sarà disposto a modificarsi. Diversamente gli imporrò un cammino che non gli appartiene e cose che non riuscirà mai a fare.
”È cambiato l’atteggiamento dei colleghi del territorio, che hanno compreso quanto sia fondamentale riuscire a dire: “non siamo noi che possiamo risolvere tutto, ma dobbiamo risolvere con una rete”. È importante riconoscere che l’operatore è una delle parti in gioco, ma non è tutto il progetto, perché per riuscire il progetto deve essere fatto da una squadra. Ho visto anche verificarsi un cambiamento nella percezione dell’altro. Rispetto ai tutor, ad esempio. All’inizio c’è stata difficoltà nell’accettare la centralità del suo ruolo. Ora invece tutti hanno capito, abbiamo imparato a lasciare che ciascuno faccia la propria parte. Abbiamo imparato a fidarci.
”Il bello è che poi tutto questo lavoro di tessitura resta invisibile, come una rete trasparente: quello che sentono le famiglie è semplicemente il valore di una relazione nata sì con l’intermediazione dei servizi sociali, ma diversa, semplice, basata sulla conoscenza reciproca e sul lento nascere di un sentimento di fiducia che permette, appunto, semplicemente di affidarsi.
”Per me è stata una riscoperta della relazione, un risvegliare la parte emotivo-relazionale del mio mestiere, che ha rimesso in gioco la capacità di ascolto e di empatia. Nella diversità di visioni, è stata una relazione tra pari: partecipi a qualcosa in cui sei un elemento dell’insieme.
”I cambiamenti sono sempre faticosi, quelli poi che ti tolgono da un ruolo prestabilito e sicuro sono ancora più difficili. Penso che sia la bellezza e la sfida di questo progetto, e anche la sua fatica.
”Abbiamo capito di avere un ruolo importante nei confronti delle due famiglie, si fidano di noi. Entrambe, quando sono in difficoltà, ci chiamano. Come potremmo non sentirci coinvolti? Tra le due è più la famiglia affiancante che ha bisogno di conferme, perché a volte ha paura di sbagliare: allora, prima di interpellare l’assistente sociale, si rivolge a noi. La famiglia affiancata invece deve essere rassicurata e gratificata facendole sentire che è importante. Poi la fiducia cresce con la relazione.
”Non mi sono mai sentito nella posizione dell’anello della catena che, se viene a mancare, fa cascare l’impalcatura. Piuttosto, mi sono sentito la maglia di una rete che a volte può anche un po’ sfilacciarsi, ma comunque continua a funzionare lo stesso, resta solida.
”Ciò che è interessante è il metodo con cui questo progetto è stato condotto. Siamo stati felicissimi di vedere che dietro a una visione si coagulavano associazioni e persone che in quella stessa visione di uomo si ritrovavano. E così abbiamo visto gli angoli smussarsi, le persone collaborare e costruirsi una rete; e quando si cade non sono i soldi che ti salvano, ma la rete.
”Una delle chiavi importanti per noi era individuare progetti che, una volta avviati, camminassero sulle proprie gambe, così da trasformare un’elargizione in investimento. Questo significa investire nella libertà delle persone, non nella loro dipendenza.